Nato nel piccolo villaggio cubano di Marianao non lontano dall’Avana, il 3 marzo del 1933, in una famiglia della ricca borghesia cubana. Tomas Milian dopo il suo passaggio in Italia dove era arrivato alla fine degli anni Cinquanta “con cinque dollari in tasca” ha avuto una carriera di oltre cento film, sul set senza soluzione di continuità dall’inizio degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, un film o due ogni anno. Bello, affascinante, scaltro, brillante, nei primi anni aveva lavorato con autori come Lattuada e Visconti, Maselli e Pasolini, Dennis Hopper e Liliana Cavani ma la grande popolarità l’aveva ottenuta con i “poliziotteschi” in cui interpretava l’ispettore Nico Giraldi e il personaggio cult della sua carriera, Er Monnezza. Morto nel 2017 nella sua casa a Miami, cosi Tomas Milian ha risposto ad un intervista che risale al 2014, in occasione del Festival Del Cinema Di Roma. L’ultima intervista al grande Tomas:

Nella sua aubiografia, “Monnezza amore mio” (Rizzoli), tra i ringraziamenti finali c’è anche il nome di Marella Agnelli, la moglie dell’Avvocato, “alla quale ho insegnato a ballare il twist”. Com’è andata?
“Me l’ha presentata una mia amica contessa a una festa di Capodanno. Quando è partita “Let’s twist again” la contessa mi ha chiesto se le insegnavo a ballare e io ovviamente ho accettato. In realtà io ero andato a quella festa per poter sfoggiare al momento giusto un portasigarette molto prezioso che mi aveva regalato Luchino Visconti. Me l’ero messo nella tasca della giacca così quando qualcuno mi avrebbe chiesto di fumare io avrei preso una sigaretta e avrei detto di fronte a tutti: “Questo me l’ha regalato Visconti”. Il problema è che era molto grande e sporgeva dalla giacca. A un certo punto è caduto per terra e le sigarette si sono sparse dappertutto. La contessa mi prese da parte e mi disse: “Dammi quel portasigarette: non è da tasca, è da tavolo”. Insomma, feci una vera figuraccia davanti a tutti quegli aristocratici”.

Lei quando è arrivato in Italia ha lavorato con alcuni tra i nostri più grandi registi: Luchino Visconti, Mauro Bolognini, Alberto Lattuada, Pier Paolo Pasolini. Poi però è passato prima agli spaghetti western e poi ai poliziotteschi. Perché questa svolta?
“Perché a un certo punto ho capito che con i film intellettuali mi annoiavo. Dovevo fare sempre la stessa faccia e io invece volevo piacere alla gente semplice che ride, piange, si arrabbia e dice le parolacce”.

A proposito, una volta ha detto che le parolacce che dice nei suoi film sono innocenti, come quelle che ripetono i bambini. Perché?
“Quando sono arrivato a Roma, parlavo solo spagnolo e inglese e come tutti gli stranieri ho imparato per prima cosa le parolacce. Di molte non capivo nemmeno il significato: ma mi divertiva molto il loro suono e poi mi piaceva il fatto che fossero pronunciate dalla gente semplice, dal vero “core de Roma”. Così quando ho inventato “Er Monnezza” mi è sembrato naturale farlo parlare come un vero borgataro. Ma le mie parolacce non sono mai offensive, fanno solo ridere.  Forse perché nel mio cuore sono rimasto un bambino. Mi è rimasto tutto del Monnezza, ce l’ho dentro. Lo amerò fino alla morte”.


Nel libro racconta che nel 1982 Michelangelo Antonioni, che la volle come protagonista di “Identificazione di una donna”, le confessò di essere un grande fan del Monnezza. Ma non lo disse solo per convincerla ad accettare di fare un film con lui?
“No, lo escludo. Negli anni ’60, quando stava insieme a Monica Vitti, li ho visti più volte. Lei recitava delle scenette in romanesco dicendo le parolacce come Er Monnezza e lui si divertiva come un matto”.

Sempre nel suo libro, diei che secondo il tuo psicanalista lei è  una persona molto religiosa. Conferma?
“Sì, è vero.  Non sono praticante, ma ho una grande fede. E quando arriverà la mia ora mi confesserò per poi farmi seppellire qui a Roma, al cimitero del Verano, vicino al mio amico Bombolo”.

Suo padre si suicidò davanti ai suoi occhi quando era ancora un bambino, un trauma che ha condizionato molto la sua vita. Ora come va?
 “Ci penso ancora, ma ormai mi sono liberato di tutto il male che mi ha fatto”.

Ha detto che Roma è la sua casa. Perché?
“Quando sono arrivato qui la prima volta, dovevo restare 14 giorni e invece sono rimasto 35 anni, ho trovato una moglie, un figlio, ma soprattutto tanto amore. I miei genitori non mi hanno mai dato amore. Mio padre era un tiranno fascista. Mia madre era una che se si sentiva male e io mi mettevo ai suoi piedi per confortarla, le chiamava le sorelle e diceva: “Portatelo via che mi dà fastidio”. Tutto l’amore che loro non mi hanno dato l’ho ricevuto qui. Per questo dico sempre che amo Roma e gli italiani più della mia stessa vita”

 

[fonte: Famigliacristiana.it]