Il ragazzo del Pony Express è un film del 1986 diretto da Franco Amurri.

TRAMA

Agostino Braghetti, un giovane ragazzo disoccupato soprannominato “Ago”, non riesce a trovare lavoro nonostante abbia la laurea con lode. Quindi, su segnalazione della sua ex compagna di università Rita, decide di provare ad impiegarsi in una piccola agenzia di Pony Express; per farlo deve però trovare un mezzo a due ruote e il denaro necessario gli arriva in modo rocambolesco: si scontra con una ragazza che sta uscendo dalla propria macchina, Claudia, e si ritrova in mano la sua borsetta.

(Clicca qui per leggere Jerry Calà: “Mi dispiace Isabella Ferrari abbia rinnegato i nostri film)

LA STORIA VERA

Jerry Calà nel suo libro biografico Una Vita da Libidine ha raccontato di aver realmente preso spunto per la sceneggiatura da un vero Pony Express mentre conviveva con Mara Venier.

LA MIA VITA DA LIBIDINE…(ogni lunedì vi racconterò un po di me..)Nel 1986, con Il ragazzo del Pony Express, tornai a raccontare la gente comune, quella che non può permettersi di vivere tra «Courma» e «Santa», ossia Courmayeur e Santa Margherita Ligure, come facevano i mitici paninari che allora imperversavano a Milano. Ancora una volta si è trattato di un film nato da un titolo, come Vado a vivere da solo. Ma quella volta ho davvero esagerato.Tutto nacque dallo squillo di un citofono. Abitavo con Mara Venier. A differenza di me, che non mi sono mai ambientato a Roma, Mara si era subito immersa nell’atmosfera vivace di Campo de’ Fiori che, bisogna ammetterlo, era la Roma più bella. I nostri amici erano persone splendide come Gabriella Ferri, ma Mara mi spingeva a cercare amicizie anche fuori dal mondo dello star system e mi coinvolgeva nella vita «reale». Uscivamo con i suoi amici salumieri o antiquari. Ogni volta Mara mi ripeteva: «Non montarti la testa. Non fidarti della gente del mondo dello spettacolo, è poco sincera. Quando sei all’apice sono tutti amici, ma appena hai una difficoltà ti voltano le spalle». Mi sarei reso conto che aveva ragione lei. Insomma, eravamo nella nostra casa di Campo de’ Fiori, quando il citofono si mise a suonare. «Chi è?» «Pony Express.»«Cos’è, uno scherzo? Siamo tornati ai tempi del West?» «Devo consegnarle un copione da parte della produzione…» Aprii la porta e venne su questo ragazzo, una specie di astronauta con il casco, i fili della radiotrasmittente e la casacca di gomma.Curioso come sono non mi limitai a firmare la ricevuta della consegna e ciao, ma iniziai a fargli mille domande: chi sei, cosa fai. Lui mi spiegò che il servizio di Pony Express, ovvero fattorini in moto che facevano consegne urgenti, era nato a Milano poco tempo prima e si stava espandendo in altre città. Ci raggiunse Mara, facemmo entrare il ragazzo e lo invitammo per un caffè. Quello era di corsa, aveva una lista di consegne lunga così, ma noi lo trattenemmo e ci facemmo raccontare la sua storia. Era laureato, ma non trovando altro si era messo a fare il Pony. Se vi ricorda qualcosa, avete ragione: ho rubato la sua storia per scrivere la sceneggiatura del film. Fu un’illuminazione. Chiamai subito Bonivento dicendogli che avevo avuto un’idea incredibile. Lui non conosceva i Pony Express, ma io gli ripetei che era una storia che meritava di essere raccontata. «Fantastico. Lo chiamiamo Pony Express!» disse. «Eh no, così sembra davvero un film western. E poi credo che un titolo del genere ci sia già. Lo chiamiamo "Il ragazzo del Pony Express". Ma non perdiamo tempo», gli risposi.Dopo Bonivento telefonai a Rino Petrosino, il fotografo, e gli dissi di prepararsi, dopo gli avrei spiegato tutto. Mara e io partimmo in auto, con il ragazzo che ci seguiva in moto (gli avevamo pagato la giornata di lavoro persa), e andammo dal fotografo. Entrammo sul set direttamente con il motorino, io mi misi addosso la casacca, il casco e la radio del ragazzo e Petrosino scattò subito le foto per il manifesto del film. Senza una riga scritta! Solo un titolo e quel ragazzo che ci guardava convinto che fossimo dei matti.Secondo passo: comprammo immediatamente uno spazio sul Giornale dello Spettacolo, un foglio distribuito solo tra gli addetti ai lavori ma proprio per questo importante. Ci mettemmo dentro la mia foto in motorino con la scritta: «A febbraio Jerry Calà sarà Il ragazzo del Pony Express». Il film partì immediatamente. Io avrei voluto girarlo a Milano perché l’idea era partita da lì. Claudio, anche lui milanese trapiantato a Roma, era della mia stessa idea. Ma il costo delle troupe milanesi era troppo alto. «Proviamo a farlo con una troupe delle pubblicità», proposi. Contattammo una delle migliori. Appuntamento a Roma. Si presentarono in sei, ma qualcosa non funzionò. Diciamo che se la tiravano un po’ troppo, com’era nello spirito della Milano degli anni Ottanta. Io chiedevo: «Lei è la costumista?», e quella, sdegnata: «No, io sono la stylist!» L’altro si offendeva se lo chiamavi direttore della fotografia e non light designer. C’era poi una differenza insormontabile nei metodi di lavoro. Loro erano abituati a girare uno spot di trenta secondi in quattro giorni; noi invece in un giorno dovevamo portare a casa almeno cinque minuti di film.Tornammo quindi ai metodi tradizionali e chiamammo come regista Franco Amurri, che prese in mano la cosa con Stefano Sudriè come sceneggiatore. E il film, partito solo con un titolo, finalmente fu realizzato.Lo sapete che il vostro Jerry tiene sempre le antenne dritte, e anche in quel caso avevo avuto un’idea che poi fu largamente utilizzata nel cinema: il product placement quando ancora non si chiamava così. In quegli anni a me e a Mara capitava di frequentare Luca Cordero di Montezemolo e la sua fidanzata di allora, Edwige Fenech. Allora la Piaggio faceva parte del gruppo Fiat, lo stesso per il quale lavorava Luca. Così lo chiamai e gli dissi che la vera protagonista del film sarebbe stata la Vespa 50, quindi perché non pensare a una sponsorizzazione?Lui mi disse che mi avrebbe fatto sapere. E me lo fece sapere: chiamò per dirmi che il target dei pony express per loro non andava bene. Un fattorino! Che volgarità. Volevano associare il prodotto a un pubblico benestante, di fighetti. Ci rimasi malissimo ma incassai.Fu allora che mi inventai quella gag che torna spesso nel film: quando mi fermo con la moto, la pulisco e la sbatto contro il muro. Per di più avevo scelto apposta una moto molto scassata.Luca Cordero di Montezemolo evidentemente vide il film e si accorse della mia vendetta trasversale perché, quando in seguito mi capitò di incrociarlo, mi fece un gesto con la mano che parlava chiaro.Da #unavitadalibidine il libro Sperling & Kupfer

Pubblicato da Jerry Calà su Lunedì 5 agosto 2019

Nel 1986, con Il ragazzo del Pony Express, tornai a raccontare la gente comune, quella che non può permettersi di vivere tra «Courma» e «Santa», ossia Courmayeur e Santa Margherita Ligure, come facevano i mitici paninari che allora imperversavano a Milano. Ancora una volta si è trattato di un film nato da un titolo, come Vado a vivere da solo. Ma quella volta ho davvero esagerato.

Tutto nacque dallo squillo di un citofono. Abitavo con Mara Venier. A differenza di me, che non mi sono mai ambientato a Roma, Mara si era subito immersa nell’atmosfera vivace di Campo de’ Fiori che, bisogna ammetterlo, era la Roma più bella. I nostri amici erano persone splendide come Gabriella Ferri, ma Mara mi spingeva a cercare amicizie anche fuori dal mondo dello star system e mi coinvolgeva nella vita «reale». Uscivamo con i suoi amici salumieri o antiquari. Ogni volta Mara mi ripeteva: «Non montarti la testa. Non fidarti della gente del mondo dello spettacolo, è poco sincera. Quando sei all’apice sono tutti amici, ma appena hai una difficoltà ti voltano le spalle». Mi sarei reso conto che aveva ragione lei. Insomma, eravamo nella nostra casa di Campo de’ Fiori, quando il citofono si mise a suonare. «Chi è?»
«Pony Express.»
«Cos’è, uno scherzo? Siamo tornati ai tempi del West?» «Devo consegnarle un copione da parte della produzione…» Aprii la porta e venne su questo ragazzo, una specie di astronauta con il casco, i fili della radiotrasmittente e la casacca di gomma.

Curioso come sono non mi limitai a firmare la ricevuta della consegna e ciao, ma iniziai a fargli mille domande: chi sei, cosa fai. Lui mi spiegò che il servizio di Pony Express, ovvero fattorini in moto che facevano consegne urgenti, era nato a Milano poco tempo prima e si stava espandendo in altre città. Ci raggiunse Mara, facemmo entrare il ragazzo e lo invitammo per un caffè. Quello era di corsa, aveva una lista di consegne lunga così, ma noi lo trattenemmo e ci facemmo raccontare la sua storia. Era laureato, ma non trovando altro si era messo a fare il Pony. Se vi ricorda qualcosa, avete ragione: ho rubato la sua storia per scrivere la sceneggiatura del film. Fu un’illuminazione. Chiamai subito Bonivento dicendogli che avevo avuto un’idea incredibile. Lui non conosceva i Pony Express, ma io gli ripetei che era una storia che meritava di essere raccontata. «Fantastico. Lo chiamiamo Pony Express!» disse. «Eh no, così sembra davvero un film western. E poi credo che un titolo del genere ci sia già. Lo chiamiamo “Il ragazzo del Pony Express”. Ma non perdiamo tempo», gli risposi.

Dopo Bonivento telefonai a Rino Petrosino, il fotografo, e gli dissi di prepararsi, dopo gli avrei spiegato tutto. Mara e io partimmo in auto, con il ragazzo che ci seguiva in moto (gli avevamo pagato la giornata di lavoro persa), e andammo dal fotografo. Entrammo sul set direttamente con il motorino, io mi misi addosso la casacca, il casco e la radio del ragazzo e Petrosino scattò subito le foto per il manifesto del film. Senza una riga scritta! Solo un titolo e quel ragazzo che ci guardava convinto che fossimo dei matti.

Secondo passo: comprammo immediatamente uno spazio sul Giornale dello Spettacolo, un foglio distribuito solo tra gli addetti ai lavori ma proprio per questo importante. Ci mettemmo dentro la mia foto in motorino con la scritta: «A febbraio Jerry Calà sarà Il ragazzo del Pony Express». Il film partì immediatamente. Io avrei voluto girarlo a Milano perché l’idea era partita da lì. Claudio, anche lui milanese trapiantato a Roma, era della mia stessa idea. Ma il costo delle troupe milanesi era troppo alto. «Proviamo a farlo con una troupe delle pubblicità», proposi. Contattammo una delle migliori. Appuntamento a Roma. Si presentarono in sei, ma qualcosa non funzionò. Diciamo che se la tiravano un po’ troppo, com’era nello spirito della Milano degli anni Ottanta. Io chiedevo: «Lei è la costumista?», e quella, sdegnata: «No, io sono la stylist!» L’altro si offendeva se lo chiamavi direttore della fotografia e non light designer. C’era poi una differenza insormontabile nei metodi di lavoro. Loro erano abituati a girare uno spot di trenta secondi in quattro giorni; noi invece in un giorno dovevamo portare a casa almeno cinque minuti di film.

Tornammo quindi ai metodi tradizionali e chiamammo come regista Franco Amurri, che prese in mano la cosa con Stefano Sudriè come sceneggiatore. E il film, partito solo con un titolo, finalmente fu realizzato.

Lo sapete che il vostro Jerry tiene sempre le antenne dritte, e anche in quel caso avevo avuto un’idea che poi fu largamente utilizzata nel cinema: il product placement quando ancora non si chiamava così. In quegli anni a me e a Mara capitava di frequentare Luca Cordero di Montezemolo e la sua fidanzata di allora, Edwige Fenech. Allora la Piaggio faceva parte del gruppo Fiat, lo stesso per il quale lavorava Luca. Così lo chiamai e gli dissi che la vera protagonista del film sarebbe stata la Vespa 50, quindi perché non pensare a una sponsorizzazione?

Lui mi disse che mi avrebbe fatto sapere. E me lo fece sapere: chiamò per dirmi che il target dei pony express per loro non andava bene. Un fattorino! Che volgarità. Volevano associare il prodotto a un pubblico benestante, di fighetti. Ci rimasi malissimo ma incassai.

Fu allora che mi inventai quella gag che torna spesso nel film: quando mi fermo con la moto, la pulisco e la sbatto contro il muro. Per di più avevo scelto apposta una moto molto scassata.

Luca Cordero di Montezemolo evidentemente vide il film e si accorse della mia vendetta trasversale perché, quando in seguito mi capitò di incrociarlo, mi fece un gesto con la mano che parlava chiaro.